giovedì 11 giugno 2015

VISIONI#20 - Dance Party, USA



C'è una certa idea di cinema nel percorso di Aaron Katz, evidente anche nel successivo Quiet City, per cui ciò che vediamo non è importante quanto quello che ci viene raccontato (esplicitamente ed implicitamente) e in cui chiunque ha una storia e, di conseguenza, merita attenzione totale.




In Dance Party, USA c'è un ribaltamento di luoghi comuni cinematografici sin dall'inizio: il protagonista è, incredibilmente, Gus e non il suo amico sfigato, Gus che è quello che racconta di essersi scopato una con un sacchetto in testa, Gus lo spaccone (si dice ancora?), Gus il colpevole, Gus ovvero quello con cui non si entra in empatia. E c'è meraviglia col proseguire del film, capire che si segue lui e non l'altro, e forse noia, si sbadiglia, ma d'altronde la festa non è weak as shit? Reale, splendidamente reale, discorsi a cazzo sul perdersi in Nebraska e sentirsi perduti, come se qualcuno, a una festa di liceali, potesse capirti veramente, come se le feste americane fossero solo ignoranza e disastro. Dalla rivelazione di Gus a Jessica in poi, momento toccante e emozionante e che dimostra cosa vuol dire saper scrivere un dialogo credibile tra diciassettenni, si va avanti consapevoli e a tentativi, come Gus stesso, cercando di capire, nel corso della visione, come ci si comporterebbe (o ci si è comportati?), perché immedesimarsi, cosa è la colpa, quale è il problema, quanto è difficile e bello e pauroso avere diciassette anni. E il finale, come in Quiet City, è di redenzione e apertura, di cambiamento?, e dove là c'era un gesto piccolo e enorme quale appoggiare la testa sulla spalla dell'altro e addormentarsi insieme, qui c'è un bacio dentro una macchina per le fototessere, insomma, si è teen, ci si deve buttare, ora o mai più.




Ecco quello che manca, al contrario: un minimo studio di fotografia cinematografica (e, nonostante questo, qualche inquadratura ottima si trova); c'è, inoltre, la sottile sensazione, durante il film, di assistere a un prodotto amatoriale, un progetto scolastico o qualcosa del genere, ed è un peccato, enorme, perché il film, i personaggi, la scrittura, le emozioni, la profondità di ogni aspetto caratteriale e umano valgono, e molto. Ed ora verso Cold Weather, sperando che la rinuncia alla camera a mano e alla fotografia alla cazzo non comporti un calo nel livello di scrittura, strumento che Aaron Katz padroneggia alla grande.

6,5

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