mercoledì 3 giugno 2015

VISIONI #17 - Quiet City



Quiet City di Aaron Katz è palesemente parte del mondo indipendente statunitense, del mumblecore e delle camere a mano, esageratamente a mano. Sono 78 minuti, rarefatti?; 24 ore (forse qualcosa in più) in 78 minuti, quindi non rarefatti, assolutamente, eppure è questa l'impressione, dovuta al non calcare sulla trama, non forzare svolte innaturali, ma, finalmente, respirare.





L'incipit richiama senza ombra di dubbio Before Sunrise, Linklater al suo meglio, e come il suo "antenato", Quiet City si focalizza sui dialoghi, sulle sensazioni provate dai personaggi, sulle loro gestualità, modi di fare, di porsi, di esporsi rispetto a ciò che li circonda. E, quindi, Charlie è un ragazzo nel mezzo di una crisi personale sul non sapere cosa fare della propria vita, e amore, lavoro, denaro e tutto il resto delle carte dei tarocchi; Jamie è in viaggio, alla ricerca di? scappando da?, con un ragazzo al telefono, ma sull'orlo del fallimento amoroso, estroversa, gentile, dolce, semplice. E, in mezzo, artisti wannabe, maleducati, Joe Swanberg che mangia dell'insalata di cavolo e fa la faccia da Joe Swanberg, dialoghi tossici e senza capo né coda ai parti con sconosciuti, passeggiate, metropolitana, citofoni. E la Quiet City del titolo è stranamente e straordinariamente New York, diversa e da scoprire, dove le fermate e i vagoni della metropolitana sono deserti, come le strade, come i parchi; i tramonti sono bellissimi e così gli scorci delle strade, dei rami di alberi frondosi, dei tetti degli edifici.




Necessariamente, in un film mumblecore (perché categorizzare?), il fulcro di tutto è e deve essere lo storytelling, inteso come il susseguirsi di dialoghi. Regge? Regge alla perfezione, ci sono mille "like" e poi "you know" e "sort of" e tutti quei modi di fare-dire che donano alla conversazione un senso di naturalezza, più che necessario, obbligatorio in un film di questo tipo, che si riflette anche sullo studio dei personaggi e, di conseguenza, sulla recitazione. Un'ulteriore piacevole scoperta, o forse ricordo di, è l'assenza di internet dalla vita dei personaggi-attori-esseri umani (o, meglio, minima presenza): non si parla di Facebook, si conversa, ci si taglia i capelli, non si fotografa ogni cosa; è quasi archeologia pre-tutto, forse uno degli ultimi esempi della cinematografia indipendente di questa fase degli anni zero. Poi, chiaramente, con tutti i limiti del caso: la camera è molto più che a mano, le luci e i colori sono, nelle scene notturne, quasi fastidiosi, la storia (per chi ne avesse bisogno) è estremamente sottile, lieve, impalpabile. Però, ecco, io, questi 78 minuti, questo piccolo lampo di vita, ecco, me lo sono proprio goduto.

7

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