giovedì 22 ottobre 2015

MONO#2 - Victor E. Nieuwenhuijs e Maartje Seyferth - Corpi e ossessioni



Victor E. Nieuwenhuijs e Maartje Seyferth: una coppia, insomma; un certo sapore nordeuropeo e un interesse incredibile per ciò che è decadente, barocco, proibito. I due, insieme, sono la Moskito Film, casa di produzione attiva da più di vent'anni nel campo della produzione visiva, artistica e documentaristica. Ciò che accompagna la loro filmografia, come detto, è il gusto per la rappresentazione di pulsioni nascoste e inconfessabili, per il racconto di solitudini; l'intrecciarsi di questi due aspetti in un unico luogo, il corpo, culla di tutto ciò che ossessiona, confonde e perfora il genere umano, li ha portati a eleggere la sensulità e tutto ciò che è proprio della carne, della materia, come centro obbligato della loro ricerca. Bianco e nero o colori, pellicola o digitale, donne, uomini, continuo cambiamento, interessi diversi e manifesti, arte, musica: diversi sono i caratteri, i fattori, di questo percorso multiforme, travagliato, ostinato.

Venus in furs, 1995, bianco e nero contrastato e sporco, girato in lingua inglese, è il primo lungometraggio della coppia (anche alla sceneggiatura); adattamento libero del romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, dalle molteplici trasposizioni cinematografiche (e come dimenticare le influenze in altri campi, vedi Velvet Underground, citazione obbligata), è un'opera imperfetta e raffinata, che dimostra una già consolidata presa di coscienza e una maturità ambiziosa (se si può dire). Le inquadrature sono lunghe, lunghissime, il piano narrativo è scomposto e slegato, frammentato in sequenze senza spiegazioni, e si può solo assistere, ricostruire i pezzi, ricomporre e ricomporsi. Il corpo umano è centrale, d'altronde gli umani sono solo questo, corpi puri e laidi allo stesso tempo, e così possiamo ammirare la potenza di Wanda e l'impotenza di Severin, il loro rapporto freudiano e straziante, il realizzarsi di una perversione (?). Pare un susseguirsi di sogni, di confessioni personali quasi schnitzleriane (il periodo di riferimento rimane quello, primi del novecento), ma è tutta realtà, tutta proiezione di sé. Interessante, molto, il riferimento ai martiri e all'ebbrezza religiosa iniziale che trova corrispondenza nel finale: la punizione finale alla San Sebastiano, compiuta dall'amante di lei è l'apice delle prove a cui si sottomette Severin per dare un culmine alle proprie sofferenze, all'annullamento di sé come unico atto immaginabile di vero amore. Grande colonna sonora, e sarà una costante nella filmografia dei due, emozionante e sinuosa.





Lulu, 2005, altra trasposizione, questa volta dalla favolosa opera in due parti con Lulu come protagonista di Wedekind, da cui il capolavoro di Pabst (e Louise, ovviamente), arriva dieci anni dopo il lungometraggio precedente. Sono, innegabilmente e nonostante il decennio trascorso, due film simili e intraprendenti, legati dalla figura femminile centrale e inarrestabile, quasi prepotente. Titus Muizelaar, loro attore feticcio, presente anche nei due film successivi, ha il ruolo dell'uomo sfruttato, sedotto e preso in giro da Lulu, figura quasi mitologica, irreale. La donna consapevole della propria sessualità e sensualità è il motore delle azioni e reazioni degli invitati a cena (le scene, lunghissime, della tavolata, del cibo che esce e entra, sono divertentissime e sconvolgenti nella loro serietà e totale mancanza di autoreferenzialità). Girato in inglese, francese e olandese, citazionisti al massimo, Lulu vanta tra le altre caratteristiche un'orchestra live che suona e accompagna gli ospiti, un minuscolo seme voyeuristico (tema che avrebbero potuto espandere), un montaggio al limite dell'incomprensibile. Irreale, in quanto portatore di ideali puri, di noumeno, il finale può essere il germe di tantissime altre cose, dello svedese Lasciami entrare, di Jenifer di Argento e chissà cos'altro ancora.




Vlees, 2009, distribuito con il titolo Meat nei paesi anglosassoni, trova come paragone, sin dalle prime battute, la figura del macellaio senza nome introdotta da Noé, e cos'altro, no? Eppure, a differenza del cinico, violento, autoritario personaggio di Carne e Seul Contre Tous, il macellaio di Titus Muizelaar è forte con i deboli e debole con i forti (ovviamente, il personaggio sovrastante è una figura femminile, in questo caso la moglie); anche nella rappresentazione dei luoghi, dei colori, delle azioni ripetitive proprie di un lavoro, il film olandese difetta in sangue, in colori saturi, in potenza espressiva. Notevoli sono i tagli delle inquadrature, mai banali, come nella famosa (?) scena della doccia, nell'amplesso ripreso dall'alto, in pianta, in cui la camera si alza per dimostrare l'appartenenza al mondo materiale di ciò che è corpo, di ciò che è sesso. Altra scena incredibile è quella degli animali nella macelleria, per forza e originalità, anche se leggermente forzata. Forzata, dunque, in funzione della storia; storia che è straripante, stimolante, lynchana, affatto scontata, eppure confusa, incomprensibile, perduta. C'è uno sdoppiamento di persona, intesa come attore, dal cui momento tutto diventa superfluo e esagerato; un'occasione sprecata, benché lodevole, perché il tema della carne e della macellazione erano perfetti per i temi e i progetti portati avanti dal duo Seyferth-Nieuwenhuijs.




Ed infine Crepuscule, sempre 2009, girato nello stesso periodo di Vlees, con la stessa coppia di attori protagonisti, che è l'elemento diverso del viaggio nella filmografia made in Moskito: un film introspettivo e cupo, muto, forse poetico, sicuramente intrigante. Il bianco e nero applicato alla città di Amsterdam è decadente e ammaliante eppure autoindulgente: visivamente, Crepuscule è forse il più altalenante dei quattro, con momenti molto buoni e momenti meno interessanti. In altro, sicuramente, trova forza Crepuscule: la rappresentazione di una solitudine non ha bisogno di parole (e da qui la scelta del film muto) e nemmeno di spiegazioni facili e didascaliche; in questo film la coppia olandese raggiunge livelli di eccellenza espressiva e trova il proprio culmine. È un film quasi ferreriano, Dillinger è morto è il primo riferimento che mi è venuto in mente, senza dubbio, nel suo essere privo di evoluzioni narrative forti e a favore della costruzione di una trama, così come nella sua capacità di indagare a fondo, e non banalmente, sulle sensazioni e sui comportamenti innocui, inutili, radici del vero malessere dell'uomo moderno, l'impossibilità di comunicare. E poi il corpo, ovviamente; il tema del suicidio, clamorosamente; le citazioni, Marienbad su tutti.





Cat and Mouse, 2015, è l'ultima fatica dei due; uscito ora nei cinema olandesi, promette senz'altro di essere un'ulteriore evoluzione nel percorso Seyferth-Nieuwenhuijs, complice anche il lunghissimo periodo di gestazione della pellicola, annunciata ormai da un paio d'anni.
Ultima nota di merito alla Reel Suspects, casa di distribuzione dei lavori della coppia, e link necessario al box completo della filmografia del duo olandese, un cinema fatto di corpi e ossessioni.

Consigliati:
Venus in furs
Crepuscule

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