sabato 17 ottobre 2015

VISIONI - Tokyo Fist



Lo stile affascinante e originalissimo di Tsukamoto emerge sin dalle primissime scene: il montaggio è al limite dell'assurdo, del videoclip anni '90, e frammentatissimo, tagli non lineari, sui movimenti di camera, poca pulizia, estrema velocità; basta questo a conferire a Tokyo Fist l'etichetta di film personalissimo e anticonvenzionale, dall'estetica marcatamente tsukamotiana, e cult indiscusso del 1995.




Dopo i primi minuti di spaesamento, ecco Tsuda (lo stesso Shinya Tsukamoto) e Hizuru, la fidanzata: lavoro, televisione, casa, lavoro, casa, televisione; toni blu, freddissimi, per una fotografia metaforica di una relazione umana al limite della sopportazione. Tutto è normale, senza problemi, perché non si conoscono alternative, e quindi accettato di buon grado; basta l'incontro con Kojima (amico di infanzia di Tsuda e legato a questo da un delitto e una promessa di gioventù; passato che ritorna spesso ma superfluo rispetto al fulcro centrale di Tokyo Fist) a scatenare le pulsioni più recondite (banale eppure vero, l'uso di questo aggettivo, beninteso) della coppia di protagonisti. Anche la fotografia, quasi didascalica, sottolinea il passaggio, posizionando Kojima in ambienti caldi, luci rosse soffuse, passione, rabbia, cuore, insomma, la diversità. È l'interesse di Kojima per Hizuru a scatenare il primo combattimento del film, quello tra i due ex amici, e subito lo stile del regista giapponese si fa prepotente: un cinema di carne e corpi, di sfacelo fisico disgustoso e raccapricciante (la citazione è d'obbligo per il gatto divorato dai vermi), molto simile al Cronenberg di Videodrome, ovviamente, ma anche al Peter Jackson di Braindead, al suo gusto per l'esagerazione e gli eccessi.




Tema portante del film è, come già detto, l'incomunicabile e, forse, l'impossibilità di una relazione sincere uomo-donna; tutto questo attraverso la facciata costruita dal regista giapponese, ossia il dolore e la sofferenza fisica, l'unico modo per diventare se stessi prima di morire direbbe Céline, o, più semplicemente, il mezzo più efficace per riscoprirsi e ritrovarsi in mezzo all'altro. C'è forse un eccesso di patina gore molto violenta e qualcosa si perde (coperto dal sangue e dai lividi), soprattutto nella costruzione psicologica dei personaggi e nella loro evoluzione affrettata, a mio parere; sicuramente, la più debole dei tre è Hizuru, con la sua passione per i piercing e i tatuaggi, e il cui comportamento è spesso forzato, artificiale. Da tutto ciò, dalla resa dei conti finale, estremamente violenta eppure divertente, mai drammatica, né tragica, emerge un nuovo Tsuda, uguale eppure diverso, e, nel suo ritorno al lavoro e alla vita quotidiana, la perdita delle pulsioni trova corrispondenza nella perdita di un occhio; d'altronde, nella terra dei ciechi, il re è l'uomo con un occhio solo. Insomma, tanto, tantissimo stile, Tsukamoto è sempre Tsukamoto.

6,5

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