martedì 27 ottobre 2015

CORTI#2 - At land



At Land, 1944, è un cortometraggio di Maya Deren, una dei padri (madri) fondatori del cinema d'avanguardia statunitense, notissima ai più per Meshes of the afternoon, capolavoro surrealista del 1943. Un anno prima, insomma, e volenti o nolenti (?) il confronto è inevitabile, per temi, tecnica, sviluppo, percorsi possibili; rimane costante, una certezza, il talento cristallino di una regista nemmeno trentenne, la sua influenza per ciò che viene dopo, la sua contemporaneità.




Si inizia dal mare: le onde in rewind sono perfette, semplici eppure esatte, per lasciare, scoprire il corpo di una donna sulla riva. La donna, svegliatasi, cerca di arrampicarsi su un tronco, muoversi, viaggiare, esplorare; il suo percorso verticale diventa orizzontale, eccola su una tavola, e poi eccoci in una foresta e di nuovo sulla tavola, temporalità e spazialità, concetti fondamentali per la Deren. Gli scacchi, il deserto, l'uomo, la casa vuota, le orme, insomma, di simboli ce ne sono a bizzeffe, come sempre, e funzionano in corrispondenza di ciò che scatenano nello spettatore. Il tema portante è, chiaramente (?), quello del cambiamento: intorno alla donna, tutto è in continuo mutamento, tutto è confusione, e il viaggio è arduo in quanto cieco, sconclusionato; interessante, quasi fondamentale, è la citazione dal libro Cinematography: the Creative Use of Reality della regista stessa: "In my At Land, it has been the technique by which the dynamic of the Odyssey is reversed and the protagonist, instead of undertaking the long voyage of search for adventure, finds instead that the universe itself has usurped the dynamic action which was once the prerogative of human will, and confronts her with a volatile and relentless metamorphosis in which her personal identity is the sole constancy". Quindi, come conseguenza forzata, la risposta ad un mondo cangiante è la riscoperta e la riaffermazione di sé, della propria identità; ma chi siamo (inteso come il favoloso tema dello sdoppiamento), chi siamo? Come in Meshes of the afternoon, la donna si sdoppia, nelle linee temporali (spaziali) o nel sogno (ma ci arriviamo), anche se la tecnica è differente: lì la sovrapposizione in scena, qui lo sguardo dei personaggi e il movimento nel montaggio frammentato.




Dunque, il sogno: e dove altrimenti è possibile il continuo mutamento dell'universo, dove si può trovare l'occasione per i simboli di emergere? La dimensione onirica come possibilità, concessione all'umanità, viaggio. Enorme nota di merito al montaggio, sconnesso e allo stesso tempo perfetto sui cambi scena, perfettamente collegate; ed anche alla messa in scena, bellissima la sequenza della camminata tra le dune del deserto. Ed infine, ultimissimo, un particolare non ancora emerso: la scelta del muto, (silent) ad inizio film, come a dire lasciamo parlare gli immagini, lasciamo che il racconto sia centrale e il rumore solo (solo?) interiore.

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