martedì 21 aprile 2015

BEST #1 - Mommy



Una donna prende una mela da un albero. La perfezione cromatica è evidente, così come quella formale, intesa come forma, intesa come quadrato. Ricordate questa mela, ricordiamola.
Mommy di Xavier Dolan, 2014, quinta opera, blabla, Quebec, blabla, enfant prodige, blabla, i suoi primi film erano migliori, blabla, inizia con una mela. La prima, primissima cosa, esplicita, dichiarata, dichiarata come tantissime altre, per non peccare di ruffianeria, diamogli al bastardo ruffiano, ma ci tornerò, la prima cosa, dicevo, è la cacofonia, dichiarata, appunto; lo dice Diana, all'inizio, appena Steve entra in casa. Due radio che suonano insieme, ma su canali differenti e quindi con melodie sovrapposte e sgraziate; nessuna delle due è distinguibile, sono unite, mescolate, ognuna deve farsi sentire. L'effetto è disfunzionale, atipico, inconsueto. Siamo al punto di partenza, alla dichiarazione del film. Anzi, a pensarci bene, il nostro inizio è l'introduzione scritta, la nuova legge, S-14, che ci dice che quello che vediamo finirà male. Necessariamente. Sinceramente. Antiruffianamente (si dice?). Quindi, in dieci minuti, Dolan ci ha detto che il film finirà male, che è un'opera profondamente cacofonica e che una donna raccoglie una mela.




I personaggi: Steve è (pre)potente, stonato, imprevedibile; Diane è forte, speranzosa, debole, innocente; Kyla è sicura, insicura. Ci sono ellissi sul passato, il passato di tutti e soprattutto di chi non ha voglia di raccontarlo, ellissi che sposano perfettamente ciò che un film deve fare: togliere (sul piano narrativo, beninteso). Gli attori sono oltremodo superlativi, nel voler farsi sentire così come nel recitare senza punti di appoggio, guardando spesso in camera, parlandosi addosso, sopra, sotto. E poi l'inquadratura si apre e si capisce che è vero ciò che stiamo guardando, vero inteso come immagine-verità, in cui l'immagine non è solo contenuto ma anche contenitore; è il contenuto che apre il contenitore, quando non ha spazio sufficiente, per farci vedere da dove arriva la luce, origine di tutti questi stramaledettissimi (positivamente e negativamente) flares e l'immagine diventa abituale, consona, via la contemporaneità, ecco la normalità. Perchè non è gioia, non è serenità, non è felicità; è normalità, abitudinarietà, quotidianità. Null'altro. E succede due volte: nella prima è Steve a spostare l'ago della bilancia, si dice così, lui a dire ok, va bene così, proviamoci; nella seconda è Diane, oniricamente, speranzosamente, per quella che è la sequenza più pazzesca del cinema di Dolan. Cinque minuti che spazzano via tutti i dubbi, è verità, è cinema puro, luce, emozioni, intrattenimento, contemplazione, sospensione. Vediamo che succede? 



Succede che va a finire male (necessariamente) e in mezzo un sacco di scene magnifiche, Steve e Kyla insieme (il passato di quest'ultima totalmente evidente e in dubbio, allo stesso tempo), il loro faccia a faccia, Celine Dion, i Counting Crows, Andrea Bocelli (addirittura!), i toni blu, gialli,rossi, il carrello della spesa in mezzo alla strada, la lotta fuori dall'ospedale, le sbronze, il mandarsi affanculo: la ricerca della normalità. E si chiude con Diane, debole e forte contemporaneamente, facciata e interiorità, e viceversa, ma non ora, non ora, che dice a Kyla, che deve andare ed è sicura di questa scelta, e forse più insicura che mai, le dice, con la certezza che non si vedranno più, mai più, vieni a mangiare qui stasera, porta tutti, faccio una crostata di mele, o preferisci una torta?, con il gelato sopra, che ho le mele sull'albero e stanno marcendo, devo coglierle per forza, e capisci che un nuovo capitolo inizia, come nella prima inquadratura, anzi, siamo proprio lì, a quella mela e quella donna. Di nuovo o per la prima volta?
E poi parte Lana del Rey, sul finale amaro di tutto (questo capitolo); Born to Die, e nulla potrebbe essere più contemporaneo, più idoneo, perfetto per quello che siamo in questo preciso momento culturale, al di là di tutto, al di là dei gusti personali; perfettamente contemporaneo, quindi, così come Mommy, 2014, Xavier Dolan.



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