sabato 29 ottobre 2016

VISIONI - New Jerusalem



Nel 2011, Rick Alverson, ancora alla ricerca di se stesso (e ancora per poco, considerando il filmone che uscirà di lì a poco), ancora frontman del suo gruppo simil post-rock, scrive e dirige New Jerusalem; il titolo è una citazione dalla Bibbia, dal vangelo di Giovanni per la precisione, ed è incredibile come Alverson sia riuscito a costruire un intero film sulla possibilità o meno di un nuovo inizio, sulla religione e il rapporto con gli altri all'interno di essa, sull'America Oggi (lacrimoni) e condensarne il significato in due parole così esplicative.




Sean e Ike, il film gira tutto intorno a loro, alla possibilità di un dialogo fra questi due uomini e, infine, al dialogo vero e proprio; e c'è spazio per piccoli episodi di vita, il caffè al bar, il gattino, la ragazza del supermercato, il padre di Ike. Ike, supercristiano evangelico, cerca di convertire (non è certamente il termine giusto) Sean, o forse è meglio dire convincere, e farlo camminare sulla retta via, nella luce di dio. Sean, che è appena tornato da Kandahar (leggi guerra) e si trova in un momento di crisi personale, inteso come inespugnabile solitudine interiore, dà una possibilità alla strada di Ike, prima di pentirsene totalmente e definire l'insieme di credenze di Ike hocus pocus. Sta tutto qui, New Jerusalem, nell'incontro scontro tra due mondi, uno apertamente definito e apertamente dileggiato dallo stesso regista, così come dalla massa di fini pensatori (eccomi, presente!), e l'altro invisibile e inafferrabile, talmente nascosto e sepolto da risultare irraggiungibile. Ecco, schierarsi dalla parte di Sean, e contro Ike (nome bellissimo e di faulkneriana memoria) è semplice e pressoché scontato, anche se Alverson è bravo nel costruire due personaggi non certo simpatici, non certo catchy, e l'empatia dello spettatore se ne va per sempre (evviva!). Quello che, forse, avrebbe aiutato un'evoluzione di pensiero (di Sean) meno improvvisa e più costruita, al di là della morte del gatto, al di là delle benzodiazepine, poteva essere una maggiore interazione con altri personaggi, rendendo il film meno incentrato sui due protagonisti. Infatti, il film risulta un intenso e gradevole sforzo recitativo e non un insieme coeso che racconta una storia: bravissimo Will Oldham, meno Colm O'Leary e la sua testa fra le mani.




E quello che mi è dispiaciuto maggiormente, perché Alverson è una persona intelligente e lo si vede nelle sue opere, è la costante impressione di mancanza di credibilità e di sincerità; quasi come se fosse teatro, quasi come se le telecamere fossero in vista e Oldham ogni tanto si prendesse una pausa. Ed è quindi impossibile per lo spettatore mantenere un contatto e una relazione con ciò che vede, quasi come se l'immagine fosse semanticamente svuotata e la storia fosse un racconto orale. Non aiuta, certo, il digitale: profondità di campo spesso ridottissima, e fuoco-fuori-fuoco continui e smodati, e una temperatura colore fredda e distante che ci fa dimenticare cosa voglia dire fare un film. Ma Alverson, come detto poco sopra, è una persona intelligente e il risultato, in qualche modo, lo porta a casa (si dice così). New Jerusalem è certamente un embrione, non di quello che sarà, ma esistente senza un prima e un dopo; è un esperimento, uno sviluppo possibile dei miliardi di possibili storie, e lo è a suo modo, e non al modo di Alverson. Prendere o lasciare.

5,5


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