domenica 4 dicembre 2016

VISIONI - Butter on the Latch



Josephine Decker, nella sua prima opera, è incredibilmente ambiziosa e sorprendentemente sicura di sé. Dirige ed edita, non si occupa della fotografia, ma del sound design sì; insomma, come da prassi del decennio in corso, è autore a tutto tondo, autrice (pardon), e lo è con naturalezza e, come detto sopra, incredibile autorevolezza. Ci sono molti corti precedenti, è vero, ma sulla distanza (70 minuti pieni pieni) si paga pegno, solitamente; ma andiamo con ordine.




Butter on the latch è, innanzitutto, volutamente confuso e disorientante e lo è tramite un espediente tanto banale quanto appropriato: la poca profondità di campo. È  il continuo spingere sul fuoco, sull'entrare e uscire dalle scene nella loro spazialità, nella loro temporaneità, il motore principale della storia; traballante e discontinua, la fotografia di Ashley Connor, si manifesta nella sua intelligenza nelle scene contemplative della natura: lì si ferma e respira, lì riposa prima di ripartire, ed ecco il bruco, i rami, le gocce di rugiada mattutine. Girato con una Canon (credo, eh, ma sembra tantissimo una 5D) e low budget che più non si può (ci sono anche i ringraziamenti a Joe Swanberg nel finale dei titoli di coda), Butter on the latch è un film intelligente e curato nei minimi dettagli; non così intuitivo come la regista desiderava, secondo me, e nemmeno così profondo, questi i suoi limiti. Dimenticabili e non rappresentativi del prodotto finale, che vanta anche un montaggio incredibilmente funzionale e minimalista e preciso nella durata necessaria delle singole scene; è sempre quel discorso del riposo e ripartenza, quello dei primi piani, dell'aggrapparsi a Sarah e a Isolde, dell'inseguirle per vedere cosa c'è dietro e davanti e dentro.




Il femmineo è al centro del film; l'esplorazione di un'interiorità difficile e incomprensibile anche a Sarah trova una possibile spiegazione nella leggenda balcanica da lei raccontata all'amica e mai compresa fino in fondo, vedesi le spiegazioni richieste all'insegnante appena prima del finale, perché rifiutata, perché inespressa (il drago e le donne e la foresta, e i capelli, i favolosi capelli). Sarah vede Isolde come un'avversaria e non come una confidente, Sarah la odia e la desidera e la cerca e il loro rapporto è molto più complesso di quello creatosi con Steph, per forza di cose, per il discorso sul femmineo, sull'essere o non essere donna. Il superamento del punto di rottura è definitivo e con implicazioni distruttive sul reale, ma (spoiler) la morte di Steph sembra non essere qualcosa di vero, qualcosa di concreto; pare solo un trascendimento di ciò che la mente di Sarah ha trovato nel suo percorso esperienziale. E si ritorna al grande inizio, slegato e ipnotico, affascinante forse più dello svolgimento stesso, la telefonata che non esiste (o, al contrario, è premonitrice, o addirittura reale?) e la notte a ballare e il risveglio ed è l'inizio, la fine, il durante? Chi è Pony? Dove siamo? Vi è solo un accenno alla faccenda, ed è al buio e la camera è fuori fuoco, là, lontana chilometri, fuoco infinito, e non si sa chi sta parlando e si cambia subito discorso, come se neanche quello, nemmeno quell'inizio fulminante fosse qualcosa di realmente accaduto, ed è tutto nella testa di Sarah, allora, e sono boschi e draghi e capelli di donna.

7

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