sabato 2 gennaio 2016

VISIONI - Angst von der Angst - Paura della paura



Paura della paura (Angst von der angst) del 1975 è considerato uno dei Fassbinder minori. A torto o a ragione che sia, la destinazione televisiva e il budget ridotto non hanno aiutato questo film nella costruzione di una reputazione solida e condivisa. Gli attori sono certo fondamentali nel percorso fassbinderiano, come non pensare alla Schygulla, e così la Carstensen e la Mira, presenti in quest'opera, sono necessarie per la riuscita di quello che è un dramma in una stanza, con pochi spazi, poche intuizioni registiche (di cui una grandissima che oscura l'assenza di ulteriori guizzi) e senza una vera e propria trama (costante della filmografia fassbinderiana, ça va sans dire).




Partiamo dalla situazione: una donna, in depressione post parto, crede di diventare matta; l'ambiente circostante, opprimente all'inverosimile, con suocera e cognata sempre presenti e assilanti, un marito distante e il timore di non essere all'altezza accentuano queste sue sensazioni, portandola a sperimentare nuove esperienze per dimenticare. Avrà una storia con il farmacista, tenterà il suicidio, inizierà a bere, ma cosa avrà successo? Il valium, forse? La storia, insomma, non ha niente di speciale, anzi; la fine è buttata via, quasi, con la sequenza finale nella casa di cura (un manicomio) molto affrettata e senza il giusto peso (il personaggio di Edda, la donna prima desiderosa di parlare e poi catatonica, molto affascinante, avrebbe meritato più spazio). C'è un quasi, perché il ritorno a casa di Margot, la protagonista, permette al regista tedesco di chiudere il cerchio in maniera spiazzante e efficace: il suicidio del signor Bauer, il matto del paese, interpretato da un favoloso Kurt Raab, che nel corso del film aveva stretto un rapporto strano e significativo con il personaggio della Carstensen, permette l'apertura di un discorso sul parallelismo dei due destini e, più in generale, sull'incomunicabilità e sull'incapacità di capire l'altro.




Ciò che dona profondità al film è, ovviamente, l'interpretazione della Carstensen, così insicura e malinconica; l'arrendevolezza del personaggio di Margot è straordinariamente adeguata per ritrarre l'impossibiltà di una vera età adulta, l'inattitudine a ciò che l'esistenza ha in serbo per noi. Il suo rapporto con gli specchi, il non riconoscersi, il non "vedersi", portato in scena innumerevoli volte è così semplice e allo stesso tempo efficace nel ritrarre la condizione di donna e uomo e umanità tutta. E lì sta anche il colpo di genio di Fassbinder, il continuo zoom-in sul volto di Margot e del marito e di tutti gli altri, stretto, quasi ad escludere l'altro dall'inquadratura; siamo soli, insomma, e chi la pensa diversamente è il vero pazzo. Forse, un po' cheap (se me lo permettete)Insomma, per me, tante, tantissime idee; la profondità fassbinderiana si trova a proprio agio anche con il budget ridotto e l'assenza di spazi filmici veri e propri. Quando l'essere umano è al centro, e quindi costantemente nell'idea di cinema di Rainer Werner Fassbinder, poco importa di ciò che gli sta intorno.

7

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