lunedì 18 gennaio 2016

VISIONI - As Mil e Uma Noites | Volume 1, O inquieto | Volume 2, O desolado | Volume 3, O encantado



L'attesissimo As Mil e Uma Noites di Miguel Gomes è un lavoro mastodontico, enorme, ingombrante. Insomma, 381 minuti, nemmeno troppo per il cinema d'autore, eppure non semplice da classificare, da realizzare, da pensare. Passato alla Quinzaine a Cannes, e dove se no?, e ben accolto in patria (dove si è pensato di donare il secondo capitolo, sé stante!!!, agli Oscar, sbagliando quasi tutto il possibile), As Mil e Uma Noites merita senza dubbio una pagina singola; o quantomeno la valutazione singola e complessiva allo stesso tempo.

Volume 1, O Inquieto



Inizia come un documentario, non ci sono dubbi, e così prosegue, grossomodo, ma quanto sono superficiale, quanto? Prosegue come un documentario, ma i generi, ?, si affastellano, sommandosi e scomponendosi, ed è difficile classificare qualcosa, finalmente; lo spaesamento iniziale è molto, per me almeno, proprio per mancanza di abitudine, di empatia con, di mancanza geografica e storica, perché no? Ed ecco, quindi, la difficoltà esplicita di Miguel Gomes nel voler fare un film felice che racconti la contemporaneità portoghese, intesa come "Del Portogallo", e il suo smarrimento, figurato e reale (cinematograficamente parlando), di fronte alla casualità. Cosa c'è di peggiore? Cosa, di più inflessibile? La contemporanea presenza di una crisi del sistema portuale della città di Viana e di una piaga che colpisce, sempre nella stessa zona, gli apicoltori (il tutto trattato in maniera discordante e parallela, come se i due avvenimenti fossero interscambiabili) trasferisce il film a un livello di mise in abyme (scusate) temporaneo e, forse, forzato, ma sicuramente efficace. Ed eccoci arrivati; la crew, al limite della sopportazione, può iniziare: siamo sull'isola delle vergini, dove le vergini raccontano e parlano e litigano e Scheherazade intercetta, cattura le parole e inizia a raccontare.
Il primo racconto si intitola "The Men with Hard-ons" ed è, forse, ma per la critica senza dubbio, un film à la Bunuel, quello della Via Lattea per intenderci, ed è feroce e perverso e coraggioso, ma, secondo me, il più debole di questo primo capitolo. Insomma, la troika si sta mangiando il Portogallo e il primo ministro portoghese sta concedendo il paese in cambio di prestiti e interessi sui prestiti e un traduttore traduce tutto, sia l'inglese che il portoghese e siamo in una taverna malfamata e fuori, per ognuno, c'è parcheggiato un cammello. È, ovviamente, surreale e surrealista e incomprensibilmente cattivo, e funziona poco (nonostante la sua necessarietà, e ne sono consapevole, perché di cosa parlare quando si parla del Portogallo versione 2013?) proprio in virtù della trovata del vigore sessuale, quasi banale, quasi scontata. E si ha subito l'impressione che di narrativo non c'è proprio nulla: l'espediente letterario, da cui Gomes prende le distanze sin dall'inizio dicendo che questo film non è un adattamento del libro, ha conseguenze solo strutturali sull'opera e sulla divisione in capitoli. Le storie, inteso come lo schema logico della Fabula, sono assenti; si ha più la sensazione di osservare la stasi in movimento, come se si andasse avanti lentamente, al limite del tempo reale, dell'unico vero tempo.



Ed ecco, prontamente, il regista portoghese mi smentisce con l'episodio più puramente narrativo e, a mio parere, il più divertente e riuscito di questa prima parte: "The Story of the Cockerel and the Fire" racchiude momenti da coming of age ed elementi di realismo magico alla Zio Boonmee, e tanta storia e tanta fabula (insomma, qualcosa). La storia è dentro la storia, che non è altro che un fatto di cronaca; dietro al processo nei confronti di un gallo rumoroso, ci sono una leggenda e un triangolo d'amore che coinvolge tre giovani teen. La messa in scena dell'evoluzione amorosa è fantastica, momento molto alto: i messaggi in super e la voce off e l'assenza totale di empatia nei confronti di tutti (e di nessuno) sono pazzeschi nell'inventare il racconto dentro al racconto e così all'infinito (come Scheherazade, direte voi, e lo concedo). Ed eccoci all'ultima parte, a "The Bath of the Magnificents", e si ritorna al documentario e si intervista, camera fissa, quasi telegiornalistica, quasi serial televisivo crime, quasi molte cose. È la fine dell'anno, 2013 AD, e si organizza un avvenimento importante nella città di Aveiro, e ritorna l'attualità economica, ma anche il gusto per la narrazione, solo quella parlata, solo quella ascoltata. Niente messa in scena, nessuna concessione alla visione, solo realtà e inquietudine ed empatia. Le storie dei Magnificents sono sicuramente riuscite e perfette per spezzare la realtà e l'irrealtà e una balena esplode e una sirena annaspa sulla spiaggia (?); dove si ferma la finzione e quanto labile è il suo confine? Ed eccoci al bagno del primo di Gennaio, ecco l'anno nuovo, ecco la fine di questo primo capitolo. E sarà un percorso cronologico, di conseguenza, a quanto pare. Tecnicamente siamo a livelli molto alti; l'incredibile potenza delle immagini è dovuta soprattutto alla varietà: la camera è a mano e poi fissa e poi corriamo ed eccoci su una scomparsa in dissolvenza di una signora e wow, la fotografia (anche grazie al thailandese Sayombhu Mukdeeprom) è da wow! Infine, un'annotazione: ho parlato di un lavoro profondo e profondamente meta e anti-narrativo trattando ogni singolo avvenimento, insomma, raccontandone la storia; in definitiva, l'importanza della coerenza.



8

Volume 2, O Desolado


Parlare del secondo capitolo, per la critica la parte più debole del magnum opus di Miguel Gomes , è tosto e difficile e potenzialmente irrealizzabile. Manca l'introduzione, manca la chiusura, è in mezzo a, è schiacciato tra; insomma, il Volume 2, O Desolado, soffre della sindrome del figlio di mezzo e dell'ingombrante paragone con la prima parte di As Mil e Uma Noites. Arabian Nights (questo il titolo inglese) è, e forse non l'avevo ancora detto, o forse l'avevo fatto ma non con la dovuta importanza, un film profondamente politico e di conseguenza sociologico; O Desolado manifesta tutto ciò in maniera esplicita e forte e in maniera quasi unidirezionale, ed è proprio qui che stanno tutti i limiti e, di conseguenza, qui è dove le critiche possono trovare terreno fertile (cristo!). E si parla poco di come "The chronicle of the escape of Simao without bowels" sia un western alla Tommy Lee Jones con dettagli da 1984 di Orwell e della tragedia dentro la tragedia e dove potremmo essere? Dappertutto è la risposta, dappertutto un fuggitivo potrebbe diventare un eroe e gli scout e i droni e wow. Certo, la debolezza di, la mancanza in, la banalità di, eppure l'umanità di Simao, il continuo correre sul crinale tra bene e male (e quindi chi è cattivo e chi è buono, ma con leggerezza, con discrezione, a distanza) sono elementi centrali e irrinunciabili e perfettamente a fuoco.



"The Tears of the judge" è, a mio avviso, il punto più alto di tutta l'opera, a parimerito con il gallo del primo capitolo: quaranta minuti surreali e divertenti e tristi e inarrivabili. Il processo, messo in scena come le Bufonie dell'antica Atene (in breve, si sacrifica un bue, si istituisce un processo per omicidio e via via vengono accusati tutti, il boia, coloro che pagano il boia, le fanciulle che portano l'acqua per affilare il coltello, l'acqua e infine il coltello), acquista una forza particolare perché profondamente portoghese: le carretas sono l'esempio più lampante (e poi l'invasione cinese, la povertà economica, i Servizi Sociali, la corruzione e cos'altro?) di come Miguel Gomes sia in grado di gestire culturalmente e citazionisticamente un'opera di sei ore, fin nel minimo dettaglio. E come non citare il tocco di classe dell'inizio e della fine, della torta e della servitrice, così forte, nella sua brevità, nella sua capacità di arrivare allo spettatore. Ed infine, "The Owners of Dixie", di balthazariana memoria, forse?, sulla storia di un cane e dei suoi proprietari e di un edificio tutto, the block tower, qualcuno ha detto The Wire?, qualcuno ha detto Perec? E l'importanza degli animali in tutta l'opera di Gomes, la loro metaforicità (si dice?), l'incredibile appartenenza a?, la forza allegorica. E quindi, la vacca del subcapitolo precedente, e poi i cammelli della prima parte, le pecore, il gallo e quanti ancora ce ne saranno nella terza parte di As Mil e Uma Noites? Insomma, ricapitolando, un grande punto debole, che accomuna tutti i capitoli e che in questa seconda parte è evidentissimo, coperto da strati di studio e cultura e immaginazione e inventiva e creatività e voglia e cinema, e cinema.



8-


Volume 3, O Encantado


Considerando il postmoderno come un riuso (s)considerato di un repertorio di forme, personaggi, luoghi del passato, e traendo profonda ispirazione da quella che è la casa del postmoderno, almeno secondo lo scrivente, e cioè la letteratura, Miguel Gomes estrae dal cilindro quella che è l'opera più profondamente postmoderna della trilogia, staccandosi (ovviamente, non in maniera completa) dalla coppia che precede questo Volume 3, O Encantado. La prima parte, Scheherazade e il Gran Visir e tutte le storie e i personaggi di Baghdad e dei Tempi Antichi, è visivamente il capitolo migliore dell'intera trilogia, e di gran lunga (e, di nuovo, grande merito ha il direttore della fotografia). Visivamente sia dal punto di vista della purezza delle immagini sia da quello del trattamento di queste, della loro manipolazione: le continue dissolvenze incrociate, lunghissime, così come le sovrapposizioni sono maestose nell'esprimere un disorientamento nel Tempo, nella Storia. E da questo disorientamento non può che nascere un favoloso pastiche, con la Lisbona di Expo '98 come luogo, e le sigarette e la spiaggia e le macchine e Scheherazade e un Gran Visir molto rispettato come protagonisti di un racconto incredibile sull'accettazione del proprio ruolo e sul bisogno che l'Umano ha, a volte, di fuggire dalle proprie responsabilità. Diverso, quindi, si è detto; l'aspetto più evidente è il modo in cui il racconto si sviluppa, per quadri, con il testo in sovrimpressione a spiegare cosa succede e a introdurre ciascun personaggio. Una successione di scene isolate e raccordate dalla letteratura (e di conseguenza l'enorme influenza di questa su tutto il lavoro, nonostante la minimizzazione del regista portoghese sul ruolo del classicone su questo Arabian Nights) e, nonostante questo, l'aspetto più evidente è quello della pura visione e non quello della trama; fra tutti questi quadri in movimento, emerge la canzone di Scheherazade, bellissima, e la libertà, la paura, la necessità, il peso ingombrante della Storia di cui lei deve liberarsi (scena molto Dumontiana, mi ha ricordato tantissimo la canzone di P'tit Quinquin). E poi, così, di colpo, ecco iniziare "The Inebriating chorus of the chaffinches", il racconto (?) più lungo dell'intera trilogia, forse non perfettamente riuscito, forse senza colpi di genio, e di conseguenza non all'altezza dei due blocchi migliori, eppure estremamente interessante e perfetto nel..., dal taglio documentaristico, dal fascino enigmatico. È un ritratto pazzesco degli allevatori di fringuelli, del mondo che sta dietro alla nicchia della nicchia; è la descrizione perfetta dell'Uomo, perché solo partendo dall'Uomo si arriva all'Umanità e da lì alla Storia e, quindi, il Mito, insomma, Scheherazade. Insomma, personaggi indimenticabili, Chico Chapas su tutti, commuoventi, così come commuoventi sono le azioni e le reazioni di questi uomini; incredibile lo sviluppo di una mitologia propria, di un rimpianto di un passato migliore anche qui, anche nell'allevamento e nella competizione fringuellistica. Miguel Gomes è maestro nel rendere avvolgente e interessantissima quella che è una realtà sconosciuta ai più; la descrizione del canto, lo studio, le trappole, è tutto enormemente wow.



E nel mezzo di, eccoci a "Hot Forest", la storia della ragazza cinese di un poliziotto amico di un allevatore di fringuelli, ed è, senza alcun dubbio, il collegamento più letterario e simile a Le Mille e una notte. Il racconto, narrato in cinese e in prima persona, è slegato dalle immagini che scorrono, immagini che descrivono la protesta dei poliziotti in seguito ai tagli alla spesa pubblica del governo portoghese. è semplice e banale, e quindi reale, e quindi comune, inevitabile: è la storia di una donna innamorata e abbandonata, cosa di più letterario? cosa di più rappresentato? E non vediamo nulla, qui sta la novità, si è già visto troppe volte, ma osserviamo quello che succede nel frattempo, altrove ma non troppo lontano, solo poco più in là. E di nuovo eccoci ai fringuelli, alla competizione, finalmente, ma siamo vicini alla fine del viaggio, ci siamo; l'umanità è questa, sembra dirci Miguel Gomes, questa e altro, tantissimo altro. E qui si manifesta la grandezza dell'opera portoghese, il suo hic et nunc che vive accanto al passato e al futuro, e la possibile essenza infinita del tutto, teoricamente espandibile allo sfinimento. Ma non è il nostro caso; perché As Mil e uma noites non è nient'altro che un bellissimo battito di ciglia nella Storia del Mondo e si può solo andare avanti, così, come se niente fosse successo.




8,5

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