DAL BASSO#15 - Una sull'altra - Lucio Fulci - 1969
Inizia e pare il solito giallo, battute a caso e dialoghi inconcludenti; la sensazione è accentuata dai tagli nel montaggio all'interno dei dialoghi: una battuta inizia in una situazione e finisce in un'altra ed è strano, irreale. I dialoghi di Jean Sorel e amante sono ambigui e abbozzati, dove è finita la sceneggiatura, dove? E poi, con calma, Una sull'altra (Perversion Story nella versione internazionale) prende vita e si distende come un velocista dopo i primi sessanta metri. Lucio Fulci, gran classe, grande inventiva, più narrativa che visiva, più creativa che cinematografica, e non me ne vogliano i suoi numerosi fans, tira fuori un capolavoro di coerenza e malvagità; grandi personaggi, grandi twist, sensualità ed erotismo veri. È infatti, a mio parere, il film compiuto, inteso come con capo e coda e storia e visione, più esplicito nel sesso e nel cosa si può mostrare e dove si può arrivare; grande merito hanno le trovate di Fulci che, pur non essendo un Bava, ha il merito di inventarsi scene girate da dentro il mobiletto del bagno, da sotto il materasso (o forse dentro), dal pavimento di uno studio fotografico. Enorme merito, davvero, ha Marisa Mell, fantastica Eva Kant per Bava, e incredibile in questo Una sull'altra in bellezza (eppure...), in credibilità, in sensualità; nel doppio ruolo Susan - Monica (e spoiler conseguenti) mostra e tradisce, scopa e ferisce, rendendo manifesta la necessarietà della donna nel giallo all'italiana, rendendo indispensabile il ruolo della "cattiva", la femme fatale oltre il bene e il male. L'ambientazione, stranamente fuori dall'Europa, più che dall'Italia, è San Francisco, la favolosa San Francisco di Vertigo, solo una decina di anni prima; e le similitudini con il film di Hitchcock non si fermano qua, con la donna che ritorna, il mistero, l'innamoramento. E poi non esageriamo, che Vertigo è forse nei dieci film della vita di tutti, anche se l'omaggio è felice e divertito, niente di forzato e nemmeno malriuscito.
Fulci, in una delle sue poche concessioni al giallo, e pur non lesinando sui morti a lui tanto cari (le scene all'obitorio), trova una fantastica soluzione visiva negli split screen che accompagnano qua e là il prosieguo della pellicola; è solo uno dei tanti leitmotiv ricorrenti (prettamente visivi). L'altro, il più evidente, è quello degli specchi e dei riflessi rubati, a testimoniare una ricerca espressiva che possa supportare una vicenda ingarbugliata e interamente basata sulla questione dell'identità, dell'essere, del fingere. Grande colonna sonora di Riz Ortolani, tra le altre cose, ma soprattutto non si può che sottolineare nuovamente la compiutezza della trama, compatta, coerente, inflessibile, infallibile; unica concessione al giallo vero, al disastroso giallo vero (e lo dico con il massimo rispetto possibile), il finalone, compiaciuto, compiacente, e incredibilmente complicato, al limite dell'impossibile.
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