CORTI #3 - The house is black
Bisogna, per forza, iniziare parlando di Forough Farrokhzad: poetessa iraniana influentissima e di conseguenza bandita per lungo tempo all'interno del mondo islamico; divorziata, indipendente, attivista, incarnava alla perfezione ciò che non doveva essere una donna musulmana negli anni'50. Muore all'età di 32 anni nel 1967; prestissimo, insomma, ma non prima di aver consegnato ai festival di tutto il mondo l'acclamato documentario The house is black, un corto di 20 minuti incentrato sul mondo dei lebbrosi di Tariz, a nord dell'Iran.
Che dire? L'obiettivo dichiarato è quello di mostrare la bruttezza (solo estetica?) e dare sollievo alle vittime perché come ci dice la regista there is no shortage of ugliness in the world; e così è, insomma, niente di scritto e preparato, ma pura verità (anche se...), voci fuori campo, dialoghi, monologhi, scritte. Un documentario sulla vita in un lebbrosario, sulla cattiveria della malattia, sulle incredibili prove fisiche che i malati dovevano sopportare e quindi piedi, mani, volti, scoperti e coperti, camminate; tutto il possibile, in definitiva, sul livello più esterno, più banale. Il montaggio è estremamente raffinato, inteso come studiato, coccolato, lavorato: tagli veloci e inaspettati e un continuo lavoro sulla ripetizione alternata delle immagini per rinforzare il più possibile l'impatto visivo sullo spettatore. La fotografia, anche, è prepotentemente curata: i contrasti sono efficaci e rivelatori, così come estremamente funzionale la scelta della sola illuminazione naturale. Eppure, sotto c'è molto altro, e per fortuna; è vero, siamo di fronte a un documentario sulla vita in un lebbrosario, e funziona, ma la scelta registica efficace sta in un aspetto a cui finora non ho accennato: la religione.
Who is this in hell praising you, o lord? è una delle frasi più importanti pronunciate da uno dei lebbrosi protagonisti di The house is black; è fondamentale perché pone, come è religiosamente necessario, l'uomo a un livello inferiore e quindi l'inferno, eccolo, l'inferno. Una questione di cecità intellettiva, insomma: come riuscire a tollerare la malattia, incurabile, inarrestabile, se non rifugiandosi nell'oppio meditativo, se non abbracciando l'idea di una vita eterna in cui la bellezza trionferà sul fato (interessantissimo anche il discorso sull'intersezione tra destino e cultura religiosa islamica)? Lo sbigottimento della regista, malvista dal mondo a lei più prossimo (l'Iran, insomma, e tutta la sfera di appartenenza religiosa), di fronte alla fede, esatto, la fede, è grande e evidente: è quasi un grido, una richiesta, chi in quest'inferno ti prega, signore? Come è possibile che ciò avvenga, dove sta la verità, dove la speranza, che eterna risorge come il cristo tanto caro ai cattolici? È forse questo il grande mistero, l'interrogativo più potente a cui The house is black ci mette di fronte, ed in questo non sbaglia, implacabile come la malattia del lebbrosario, e in questo sta il suo successo, la sua meritata importanza.
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