VISIONI - Dark Horse
Considerando che Todd Solondz è un semidio e non solamente un genio, e semidio in quanto immortale e vulnerabile allo stesso tempo, mi aspettavo molto di più da questo Dark Horse. Molto di più perché tutti i Solondz che ho visto sono classificabili come superiore alla media (Palindromes, Perdona e dimentica), quasi capolavoro (Fuga dalla scuola media) e capolavoro (Happiness, ovviamente nella versione integrale), mentre se dovessi etichettare questo Dark Horse, lavoro del 2011, direi, con un'espressione tanto cara al mondo musicale, nice for fans.
Ecco, l'inizio è molto buono, davvero, con l'introduzione del personaggio principale, Abe, a un matrimonio mentre tutti ballano e lui dice no, ballare non fa per me, sottintendendo che tutti sbagliano e non capiscono un cazzo, ed è folgorante, innegabilmente, e accanto a lui Selma Blair, e dici wow! E subito, nella scena dopo, Christopher Walken con i pantaloni fin sotto le ascelle e una polo Ralph Lauren, e accanto a lui Mia Farrow, irriconoscibilissima, e le aspettative si fanno ancora più alte. E finisce lì, purtroppo non c'è più niente, un gran personaggio (Abe) che fa cose sgradevoli e stupide e senza senso, una mezza storia d'amore, l'epatite B (che forse è il passaggio migliore, passaggio inteso come intuizione narrativa, del film), la morte. Solondz cerca di essere corrosivo e non ci riesce, ed è forse questo il dispiacere più grande che può darmi; cerca di colpire e ritrarre, ma sembra indietro di parecchi anni, e senza il piglio giusto né la capacità di scrittura grandissima che avevano i suoi film degli anni '90. Fuori fuoco, ed è un peccato, tutti gli attoroni che partecipano alla coralità del film, da Walken alla Blair; poco sfruttati, e male, i personaggi del cugino Justin e del fratello in california (il buon Justin Bartha). Grande prova invece di Jordan Gelber, che calza a pennello il personaggio di Abe, e di Donna Murphy nel ruolo della segretaria-cougar-presenza-onirica. Pochi i momenti di dialogo raccontati e sviluppati alla grande, come Solondz sa fare, tutto accennato appena, sfiorato e dimenticato, come se la comunicazione non fosse importante, come se fosse tutto un film dentro al film, dichiarato e recitato con l'idea di far vedere che si sta recitando (mi sono spiegato malissimo!).
Grande rimane il talento visivo di Solondz, sempre originalissimo; il suo talento, che non sta nella scelta delle inquadrature, né nella fotografia e neppure nei movimenti di camera, risiede tutto nella superba capacità di scegliere cosa e come mostrare ciò che ha in testa. E si sviluppa, quindi, in maggior misura, nell'oggettistica, nell'abbigliamento, nella scelta dei luoghi esterni e interni: inarrivabile l'idea dell'Hummer giallo, e poi le magliette del protagonista, abbinate alla camera, al volto, agli altri attori, il negozio di giocattoli, la camera di Selma Blair, lei che fa la spesa, un cane, i fiori di lui al primo appuntamento, gli occhiali di Mia Farrow, la scena finale con la lapide, lui giallo sul letto di ospedale. Insomma, la visione vera e propria, inteso come quello che viene proposto agli occhi al di là del mezzo filmico, come non filtrato, come se fosse una realtà. E nonostante sembri tutto incredibilmente negativo, non è così; Dark Horse si lascia seguire e con un certo interesse, non è mai fermo e neppure di eccessiva durata (come se fosse un elemento negativo?). è forse la delusione (mezza) a parlare e cercare appigli non è mai facile, anche quando si tratta di uno dei tuoi registi favoriti, anche quando si parla di Solondz e quindi di America oggi, e quindi di oggi. Riassumendo tutto, allora: nice for fans.
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