domenica 19 luglio 2015

VISIONI #28 - Kinetta



La sensazione di aver scalfito solo la superficie rimane forte, a fine visione; rari, rarissimi sono i casi in cui film, di narrazione si intende, sono ridotti così all'osso, così all'essenziale. Yorgos Lanthimos, in Kinetta, 2005, distrugge ciò che deve distruggere, il cinema del troppo, e con uno stile incredibilmente personale, quasi al di là della definizione possessiva, propone un'alternativa al racconto, alla trama, alla fabula.




Kinetta è, innanzitutto, ossessione: nei gesti, nelle parole, nelle persone; è hanekiano, e molto, nella conseguente freddezza delle immagini, nel soffocamento ipnotico dello spettatore che, disorientato, si trova a vedere qualcosa che contrasta l'idea di cinema come storia, o intrattenimento tout court, per sfociare in pura e semplice (meta)visione, senza nessuna concessione facile a spiegazioni, personaggi, intrighi, finali esplicativi (e la quasi totale assenza di dialoghi va proprio in questa direzione). Ossessione, appunto: per quel poco che si può comprendere, Kinetta mostra l'attrazione, morbosa?, di due uomini, un fotografo e un poliziotto (?), per le violenze e i delitti subiti da donne sconosciute (il corpo sulla spiaggia), tanto da spingerli a rimettere in scena gli atti (criminali), nella maniera più vicina possibile alla ricostruzione fatta, con donne straniere, abitanti della località di mare in cui si trovano, la Kinetta del titolo (?). In cambio propongono a quest'ultime documenti necessari alla loro regolarizzazione, le fototessere del fotografo (e il poliziotto che le pinza con dei fogli, e per questo, forse, non è semplice poliziotto, ma qualcosa in più).




I gesti dei protagonisti sono meccanici, controllati; le azioni rimesse in scena (Gombrowicz molto, in qualche modo, ma senza tutta la verbosità e la paranoia dello scrittore polacco) sono costantemente scandite alla favolosa voce del poliziotto che urla ciò che sta per fare; il fotografo riprende e scatta, senza pensieri, senza volto, puro occhio cinematografico, cinema dentro al cinema, enunciando (implicitamente, ovviamente) la superiorità di questo sopra il reale, come per esempio nella crudissima scena del tentato suicidio,in cui prima di salvare la donna, scatta numerose istantanee della scena, come fosse tutto finto, ancora, e vero, allo stesso tempo. Realtà e messa in scena si mescolano in questo momento, appunto: una donna si immedesima completamente nel ruolo tanto da sfuggire agli ordini imposti (dal regista) e cercare la riproposizione dei gesti da solo, con spirito di auto annientamento, pura, vera, ossessione. E il linguaggio: l'incredibile sequela di parole che il poliziotto vuole farsi tradurre, nomi svuotati di significato, le radici di Kynodontas; così come l'ambiente autoritario, l'uso della forza sui deboli, l'assenza di concessioni allo spettatore, veri e propri tratti salienti della new wave greca. Un film difficile, e necessario, utile per capire il decennio che verrà.

7,5

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